Solcavamo le strade fiorentine quel giorno.

Era un venerdì, un fottuto venerdì uguale al precedente.
Solcavamo le strade fiorentine, mentre il sole era alto nel cielo ed illuminava tutta la città con i suoi raggi.
Non c’era vento, ma l’aria fredda ci costrinse ad imbottirci per bene per evitare di svegliarci la mattina seguente senza voce, ma non è che me ne fregasse molto.
Io non ci volevo andare a quella gita, ma la professoressa insistette così tanto da convincere persino mia sorella a lasciarmi partire e così fui costretto a sorbirmi trattamenti speciali per la maggior parte del tempo, incatenato al suolo e privato della sola possibilità di raggiungere la felicità.
Sull’autobus tutti vivevano con il sorriso sulle labbra, cantando e scherzando con quelli che definivano “amici”.
Io non ho amici, non ne ho mai avuto e non ne sento affatto il bisogno; dal giorno in cui i miei genitori sono morti ho iniziato a creare un mondo a parte, composto da me e da mia sorella, esternando tutti gli altri.
Molte sono state le famiglie che ci hanno adottati, ma nessuna si è mai curata di noi abbastanza da farci creare delle solide basi per il futuro, nessuna ci ha mai dato amore.
Ma io non ho bisogno di false emozioni per vivere, sono una pedina nelle mani di qualcuno al di sopra di me, ma a volte, per qualche strano motivo vengo guidato dagli occhi di giovani ragazze, quasi loro fossero le sirene ed il loro sguardo per me ne fosse il canto.
Tutti mi sorridevano, quasi volessero farmi credere di essere i buoni e di aiutarmi, quando invece dietro la loro schiena nascondevano le manette con cui mi avrebbero incatenato a quella vita.
L’autobus si fermò, lasciandoci scendere nel centro della città, pronti per una visita guidata dei monumenti più importanti.
Fu lì che una bella ragazza mi sorrise e mi prese a braccetto, “aiutandomi” a non inciampare in quei sentieri il cui odore sapeva di storia, di millenni di storia vissuta.
Quella ragazza somigliava ad un angelo, con quei suoi lunghi capelli neri tenuti ordinati da un cerchietto rosso; sembrava diversa dalle altre, non sembrava aiutarmi perché la professoressa glielo aveva imposto, sembrava ritenerlo la cosa giusta da fare…o perlomeno allora la pensavo così.
Lei mi parlava, cercando di farmi ridere e di mettermi a mio agio, cercando di farmi rinascere come una fenice rinasce dalle sue ceneri, ma ero troppo impegnato a diffidare di tutti per potermi fidare realmente.
I miei compagni di classe seguivano la guida fregandosene di me, quasi fossi diventato un semplice bagaglio vecchio da portarsi dietro, un rifiuto ambulante da lasciare a qualche povero sfigato tanto per rovinargli la gita.
Forse però avevano ragione, perché cercare di legare con me quando potevano avere amici normali? Perché rovinarsi la vita cercando di starmi dietro, quando si poteva semplicemente girare la testa e far finta di nulla?
La guida spiegava al gruppo la storia della città, del duomo e anche delle piccole chiese sparse ovunque sul suolo della città.
Io adoro l’arte, l’ho sempre adorata, fin da bambino, per questo cercavo di ammirare tutto e di rendere ogni piccola nuova scoperta una parte di me, cercavo di vivere quello che gli altri potevano vedere solo esternamente, cercavo di entrare nei minimi particolari, di rivivere il passato e di diventare parte di esso.
Mi allontanavo dal gruppo per seguire un mio itinerario, cosicché quella gita trovasse un vero scopo, ma venivo sempre recuperato e riavvicinato ai miei coetanei e la felicità stava ormai iniziando a diventare un’utopia; ero costretto a seguire ordini da persone a cui non importava nulla di me, costretto a vivere legato ad una corda impossibile da spezzare, quasi fosse d’acciaio.
Dovevo assolutamente trovare una soluzione, e fu lì che iniziai ad escogitare il mio piano: li avrei lasciati tutti a bocca aperta d’innanzi alla mia grande forza di volontà nel distruggere quella corda.
L’unico motivo che mi bloccava dall’agire era proprio quella ragazza, troppo bella e troppo dolce per diventare una vittima del mio piano, ma non c’era altra scelta.
Avrebbe sofferto, forse si sarebbe anche preoccupata, ma cosa importa se viviamo in un modo egoista? Dove tutti pensano solo a se stessi e se ne fottono degli altri?
La continuai a guardare, incantato da una bellezza che poco poteva avere di reale, la guardai e con lei guardai il suo sorriso, un sorriso che per poco non mi convinse a demordere, e sottolineo il “per poco”.
Sulla via del ritorno, quando ormai avevamo raggiunto nuovamente l’autobus, una pietra per terra quasi ci fece cadere e quello fu per me il calcio d’inizio: strattonai la ragazza, mi liberai dalla sua presa ed iniziai a correre, lontano da tutti, lontano dall’autobus, lontano dalla ragazza angelo.
Iniziai a correre, seguendo in lontananza la luce della felicità che ora iniziava ad avvicinarsi sempre di più.
Non so perché, ma non provavo stanchezza, avrei corso per ore, giorni, anni; in quello stato raggiunsi un incrocio e subito l’idea di correrci attraverso mi balzò nella mente.
Tutti si sarebbero sentiti responsabili della mia morte, tutti compresa la ragazza angelo.
Non pensai ad altro per il rischio di cedere alla minima parte di coscienza che mi restava, ma proprio quando
ero sull’orlo del marciapiede, un mio compagno di classe mi prese dal colletto costringendomi a fermare la mia corsa.
Non opposi resistenza e mi arrestai, ormai certo che la mia unica possibilità di salvezza era sfumata nel nulla.
Tornammo indietro ed incrociammo due ragazze ed un ragazzo, gli unici che si erano preoccupati per me, tra di loro c’era la mia ragazza angelo con milioni di lacrime le rigavano il volto.
I professori non mi sgridarono, non mi punirono, non dissero nulla, troppo impegnati com’erano a farsi i fatti propri; alcuni pensavano inoltre che sarei tornato indietro autonomamente, poveri stupidi.
Salimmo sull’autobus, come se niente fosse, e all’inizio mi parve sentire i ragazzi confabulare qualcosa alle mie spalle, qualcosa riguardo al mio passato e agli psicofarmaci che ero costretto a prendere per la mia depressione; quegli psicofarmaci poi mi hanno fuso la maggior parte del cervello.
Mi avrebbero rinchiuso in un ospedale psichiatrico, legato al letto come una cavia da laboratorio, perché secondo loro una persona come me, che gira libera per strada, è un pericolo pubblico, una bomba difettosa che può esplodere da un momento all’altro.
Durò pochi secondi, poi la musica e le risate ricomparvero sulla scena.
Guardai fuori dal finestrino, il sole stava tramontando sulla città, e la sua maestosità mi convinse che, anche dopo quel fallimento, nulla mi avrebbe impedito di riprovarci.
Avrei raggiunto la felicità, in un modo o nell’altro.
E mentre l’autobus usciva da Firenze, tutto venne avvolto dall’oscurità.



…Sebbene il racconto prenda spunto da avvenimenti realmente accaduti, molti dettagli sono semplicemente finzione, collante per renderlo più scorrevole.

Mi scuso con chiunque possa sentirsi chiamato in causa…

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