Una brezza leggera accarezza il mio viso, dolcemente, mentre le voci si sovrappongono creandone una nuova, incomprensibile.
Sono bloccato, non riesco ad aprire gli occhi eppure sono cosciente che qualcosa di brutto mi è accaduto, qualcosa eliminato dalla memoria per poter vivere al meglio.
La terra sotto di me si muove ad una velocità così elevata da poter dedurre di essere in auto.

Che la brezza provenga da un finestrino aperto?
Ad un tratto un profumo di rose mi colpisce lasciandomi un attimo senza pensieri; non ho mai avuto la possibilità di cogliere una rosa in fiore e quel profumo ha alimentato le speranze di potermi creare una nuova vita, altrove, lontano dal mondo che oggi conosco.
Ma quando i miei pensieri ritornano coerenti, non utopistici, mi accorgo che il mio viso è rigato da lacrime, mi accorgo che la mia ora è quasi arrivata; non vedrò mai una rosa fiorire e non avrò mai il piacere di regalarne alla donna che amo.

Ora i suoni risultano più comprensibili, riconosco la voce di mia madre, il suo ottimismo e la sua voglia di continuare a lottare.
E’ lei l’unica che, fino ad ora, mi ha supportato completamente nella mia malattia, ha chiesto il parere di diversi medici e ha comprato le mie medicine.
Tutto inutile, a quanto pare. Inizio a credere che abbia sprecato il suo tempo credendo in me fin dall’inizio.
Sono nato storto in un mondo dritto, sono la torre di Pisa della vita umana.
L’odore di rose mi ha abbandonato già da un pezzo, sostituito dall’orribile tanfo della città, dello smog.
La macchina si ferma, il motore si spegne, cade il silenzio per qualche minuto, poi…

«Io non mi arrendo, non mi arrenderò mai. E’ il mio bambino e lo sarà per sempre.»

Ho vent’anni, o perlomeno questo è quello che mi pare di ricordare, ma la mia malattia non ha fatto altro che peggiorare, facendo retrocedere il mio cervello fino all’età infantile.

Perché allora sto ragionando normalmente? Perché la morte deve darti una speranza di vita prima di strapparti dal terreno con tutte le radici?
Sento delle mani sul mio corpo, mi stanno mettendo su una barella, forse vogliono tentare un’operazione, una delle tante, forse l’ultima.
Un’infermiera mi spinge in una camera, in attesa. Non so cosa stessero attendendo, forse un segnale divino che li aiutasse a curarmi, forse solo la mia morte.
Ormai riconoscevo il profumo di ogni singolo dottore o infermiere, riuscivo persino ad individuarne il dopobarba.
Quando si è messi di fronte ad una porta da cui si entra soltanto, si fa di tutto per perdere tempo, per trovare più lati negativi che positivi, per evitare di buttarsi e rischiare l’ignoto.
Le mani di mia madre mi accarezzano ed una lacrima le scivola sul mio viso.
Vorrei urlare, ma ogni suono che io tenti di far uscire dalla mia bocca esce quasi come un singhiozzo.
Finalmente la sala operatoria è pronta, mi fanno respirare l’anestesia e tutto il mondo intorno sparisce.
Mi sento cosciente, ma all’interno di me stesso, posso quasi toccare con mano i miei ricordi, le mie paure, i miei sogni.
Tutto sembra così reale da non voler più svegliarsi in quel mondo di dolore, di tristezza, di sogni infranti.
Cammino ad occhi aperti tra la gente, esco con i miei coetanei e rido, rido della vita che prima odiavo.
Sto bene, non sono mai stato meglio.
Quello stato di inconsapevole felicità svanisce presto, sopraffatto da un dolore lancinante proveniente dal mio stomaco, mi inginocchio e tutto sparisce ancora una volta, me compreso.
E’ la fine, questa volta è tutto finito, è la caduta della torre pendente.
Non so quanto tempo io abbia passato in stato di agonia, morendo dal dolore.
Un lungo bip continuo segna quello che pare il mio decesso, vengo attraversato da scariche elettriche ad alto voltaggio, poi di nuovo la pace.
Che sia finalmente morto?

Nessuno dovrà più preoccuparsi di me, della mia malattia, dei miei problemi. Nessuno dovrà più ritenersi responsabile o star male al posto mio.
Finalmente l’ultimo tassello del puzzle è stato eliminato.
Riesco ad aprire gli occhi e vedo un cielo pieno di stelle, stelle bianche così vicine da sembrar quasi di poterle toccare.
Apro la bocca e riesco a pronunciare una frase, una frase completa dopo tanto, troppo tempo.

«Dove mi trovo?»

Niente più lamenti, niente più singhiozzi, finalmente posso parlare, finalmente la tristezza è solo un ricordo lontano.
Mi sento vivo nella morte.
Un uomo in camice bianco compare su di me, se non fosse stato per quel profumo mi sarebbe sembrato un angelo.

«L’operazione è andata a buon fine. Come ti senti?»

Tutto il mondo che sono convinto di conoscere viene distrutto in mille pezzi da quelle poche parole; cerco di muovermi e a mia sorpresa riesco persino a sedermi sul letto.
Mi guardo intorno, contento di poter finalmente vedere il mondo con i miei occhi, di associare ad ogni oggetto un suono, di vivere.
Quando mia madre compare sulla porta mi alzo e corro ad abbracciarla; fiumi di lacrime scorrono sui nostri volti, mescolandosi insieme.

Se non fosse stata così testarda, forse, non saremmo mai arrivati a questo punto, se non avesse insistito tanto non avremmo raggiunto questo obiettivo, non avrei iniziato a vivere.
Questa esperienza mi ha insegnato molto, mi ha donato una seconda occasione, la possibilità di tramandare alle future generazioni un insegnamento molto importante: la capacità di non arrendersi mai, nemmeno di fronte alle disgrazie, nemmeno a ciò che viene definito “impossibile” o, rimanendo in tema, “malato terminale”.

“E finalmente la torre di Pisa trova il suo equilibrio e capisce che è il mondo ad essere storto.”

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3 commenti

  1. Volevi che ti lasciassi un commento, ma questo è l’ennesimo racconto che mi lascia senza parole..

    *____________________________*

    ti voglio bene, camypuff.

  2. Ciao…bellissima la frase:”mi sento vivo nella morte”per il resto il racconto mi sembra un pò surreale…

    1. Cosa intendi con “un po’ surreale”, scusami?
      Tutto il racconto si basa su ciò che prova il protagonista, è la descrizione di quello che sembra l’ultimo stadio della vita umana vissuto dall’interno.

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