«Valeria? Sei… proprio tu?»

A Natale mancavano ancora 2 settimane, ma la città era addobbata a festa, i mercatini avevano mille aromi, uno fra tutti l’inconfondibile vin brulé.
Quante famiglie sotto quei funghi-termosifone a riscaldarsi con un buon vino caldo e quattro chiacchiere.
Quel giorno lo ricordo bene, aveva iniziato a nevicare e camminavo a testa bassa con i miei genitori davanti.
Diciannove anni sprecati.
Quando dicono che dobbiamo incontrare amici di famiglia normalmente si tratta di adulti o anziani incapaci di comprendere il mio mondo di ragazzo, un mondo fatto di frutta ricoperta al cioccolato, di serate in discoteca a far tardi (o presto a seconda dei punti di vista) con gli amici; un mondo dove la vita è una e se non ci divertiamo ora arriverà presto il giorno dei rimpianti.
Il mio mondo stava per essere distrutto da qualche altro amico dell’anteguerra, quando da lontano intravidi 3 figure, un uomo, una donna ed una ragazza.
Non so cosa mi accadde in quel momento, ma quasi mi avessero addomesticato ed attaccato ad un guinzaglio cominciai ad ammirare ciò che era di fronte a me.
Una ragazza, sicuramente più giovane di me, a dir poco affascinante.
Mi dissero che era Valeria e la mia mente volò indietro di molti anni, quando insieme ci incontravamo nella casa dei miei nonni a giocare per ore, senza sosta.
L’ho vista crescere, ero quasi il suo fratello maggiore, e ci tengo a sottolineare quel quasi.
D’un giorno all’altro le nostre famiglie si sono separate, non ci siamo visti per anni e ora… Una splendida visione era in piedi dinnanzi a me.
Aveva l’aria timida, un sorriso che scintillava grazie al suo apparecchio per i denti ed uno sguardo innocente, puro.
Ci incamminammo per quelle strade che ormai avrei dovuto conoscere a menadito, ma quel giorno ogni angolo sembrava diverso, tutto sembrava nuovo in sua compagnia.
Naturalmente i genitori erano con noi, ma era come se standole accanto, anche senza nemmeno parlarle, il mondo ci si restringesse attorno.
Di tanto in tanto la vedevo che iniziava a fissarmi, e la mia mente iniziò ad elaborare le spiegazioni più disparate, anche le più folli.
Nella mia mente era proiettato il solito film delle “seghe-mentali” degne di questo nome. Io ero l’unico spettatore in sala.
La neve ora cadeva più fitta, con fiocchi grandi quanto palle da tennis e lei si strinse a me per scaldarsi e ripararsi sotto il mio ombrello.
Una scarica mi percosse lungo tutto il corpo, mi sentivo euforico e allo stesso tempo stranito da quella situazione inusuale.
Non era una stretta normale, era qualcosa di più, qualcosa di…
Per cena finimmo in un locale tipico, qualcosa di caratteristico che mai avrebbero potuto provare nella loro città a più di mille chilometri di distanza.
Mille chilometri… mille pensieri.
Scherzavamo sempre, ridevamo ad ogni battuta, ci guardavamo con gli occhi di chi ha davanti a sé il frutto di proibito.
Iniziai a rivivere quello spirito natalizio che avevo ormai perso; ero come se stando accanto a lei potessi ritornare bambino e rivivere la felicità delle piccole cose.
Perché più cresciamo e più la felicità diventa un puntino lontano, e raggiungerla costa sempre più fatica.
Parlavamo di cose di poca importanza, ma non importava l’argomento, bensì il luogo.
Eravamo insieme, questo contava.
La notte aveva acquisito qualcosa di magico, di unico; ci sedemmo sulle panchine, lontani dalla gente, dalla confusione, dalla festa.
Su quella panchina, con in mano la nostra frutta caramellata, guardavamo le stelle ed insieme cercavamo le figure più strane in quell’oceano di luci infinite.
Guardando il cielo ci rendemmo conto che la maggior parte di quelle stelle, forse, era spenta da un pezzo, ma nonostante tutto continuava a brillare; per le stelle la distanza non era mai stata un problema, gli uomini l’avevano resa tale.
Appoggiò la sua testa sulla mia spalla e lentamente crollò in un sonno profondo; preso dalla tristezza e dalla malinconia che quella serata potesse finire, iniziai a toccarle i capelli e così facendo mi addormentai anch’io.

Mi sembrava di aver chiuso gli occhi per cinque minuti soltanto, ma quando li riaprii era già mattina ed eravamo in un letto, concatenati in un abbraccio che ci rendeva una persona sola; i nostri genitori dovevano averci riportati in albergo.
Dalla cucina provenivano le loro voci che parlavano e ridevano, per cui mi alzai, mi misi qualcosa addosso e li raggiunsi, seppur a malincuore.
Scoprì così che l’indomani sarebbe stato il loro ultimo giorno nella nostra città e che dopo le ultime compere avrebbero preparato le valigie.
Fu un colpo al cuore, come una freccia avvelenata che fa effetto molto lentamente, facendoti soffrire ogni attimo di più prima di ucciderti completamente.
Dovevo passare con lei ogni attimo possibile, renderla la musa delle mie giornate future, farla vivere con me durante la sua assenza.
Solo allora mi accorsi di quanto il tempo fosse visto come un ostacolo; il tempo, in quel caso, veniva in mio favore, donandomi la possibilità di creare qualcosa dal nulla, di essere il Dio della mia vita, il giudice delle mie azioni.
Avrei potuto gettare le basi per quella che sarebbe potuta benissimo essere una grande amicizia come qualcosa di più, in un futuro non molto remoto.
Mi affacciai alla finestra, quando un abbraccio mi strinse da dietro ed il suo viso comparve alla mia sinistra; il cielo quella mattina era limpido, non una nuvola, le montagne innevate davano un’atmosfera natalizia al paesaggio, una bambina urlava e giocava in cortile, ignara del mondo che va avanti.
Quando si è bambini la felicità vien da sé, sempre.
Quando si è bambini la felicità non è un’utopia, ma una realtà.
Quando si è bambini la felicità esiste, a prescindere.

In un periodo della mia vita avevo anche smesso di credere nell’amore, ma è lo stesso principio. L’amore esiste, è sempre esistito, diventa solo più difficile riconoscerlo.
Sorrisi di quei giorni a dir poco fantastici, sorrisi di quel futuro che si prospettava dinnanzi a me, pieno di incognite e del piacere della scoperta.

E poi sorrisi a lei, e dopo averla guardata dritta negli occhi le schioccai un bacio sulla guancia.
Era l’inizio di un’amicizia oltre i limiti della normalità.
Dopo aver cercato di nascondere il rossore sul suo viso mi prese per mano e mi fece stendere nuovamente sul quel letto che, ormai, sapeva di lei in modo indelebile, mi abbracciò fin quasi a stritolarmi e mi sussurrò nell’orecchio poche parole, ma intense, che mi fecero sorridere ancora.

«Ti voglio bene»

La strinsi più forte a me venendo inondato da quel suo profumo irresistibile.
La mia scelta diventava ogni attimo sempre più difficile.

«Anch’io ti voglio bene.»

E senza volerlo ci addormentammo di nuovo, in quell’abbraccio che avrei voluto fosse eterno.

Ed il frutto proibito divenne il frutto della passione.

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