«Mi dica, qual è il motivo che l’ha spinta a chiamarmi, questa mattina?»

Tra tutte le domande, quella era forse l’unica cui non avevo ancora la forza di rispondere.
Mi allontanai dal centro della stanza e mi appoggiai con entrambi i gomiti sulla finestra che dava sul parco.
Un grande albero spuntava nel centro di quella macchia verde, mentre alcuni bambini si divertivano correndogli intorno.
Alzando lo sguardo, a pochi chilometri di distanza, si cominciavano a intravedere le case e palazzi della città.

Era come se fossimo in una bolla, lontani dai problemi quotidiani.
La cosa avrebbe dovuto rendermi più rilassato, ma l’ansia continuava a crescere dentro di me.

«Lei sa cos’è la felicità, Dottore?»

Chiesi, mantenendo gli occhi fissi verso l’orizzonte.

«La felicità è lo stato d’animo, o emozione positiva di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri.
E’ una condizione letizia di gioia e soddisfazione.»

Mi voltai cercando di scorgere in lui anche il minimo accenno a un’emozione, o qualsiasi cosa potesse mai pensare di me.
Nulla, soltanto uno sguardo vuoto, distaccato.

«Non le ho chiesto la definizione. Cos’è la felicità?»

Per un attimo mi parve di vedere un accenno al dubbio provenire dal suo volto, ma si ricompose quasi immediatamente.

«Lei conosce la risposta corretta?»

Mi voltai nuovamente, dandogli le spalle e iniziai a sorridere.
Era un sorriso amaro dovuto a ricordi positivi.
Non è forse un paradosso?
Il ricordo di un passato felice può allo stesso tempo intristirci.

«La felicità è non aver bisogno di chiedere niente in cambio, la felicità è la capacità di rimanere in silenzio senza necessariamente definire quei momenti “imbarazzanti”.
La felicità è quella voce che non smetteresti mai di ascoltare, quasi fosse diventata l’olio in grado di far smuovere i tuoi ingranaggi.
La felicità sono quegli sguardi pieni di parole che non riescono mai a raggiungere la bocca, ma che l’altro comprende senza problemi.»

Mi voltai, ancora una volta, vedendolo prendere appunti.
Cosa mi aspettavo, dopotutto?
Ero soltanto uno dei tanti casi disperati delle dieci di mattina.

«E lei ha provato tutto ciò?»

Tornai a sedermi sulla sedia, mentre seguendomi con lo sguardo, attendeva una mia risposta.

«Una volta, qualche anno fa. Si chiamava Clara.»

Le parole si accavallavano tra i miei pensieri senza che dalla mia bocca potesse uscirne nulla, rimanendo aperta a mezz’aria, come se il solo pronunciare il suo nome ad alta voce fosse troppo da sopportare.

«Mi parli di lei.»

Mi chiese continuando a prendere appunti.
Mi resi conto di essere diventato la sua scimmia da laboratorio, e presi in considerazione l’idea di andarmene.

Chiusi gli occhi e cominciai a descrivere quei pensieri che lentamente prendevano forma dentro me.

«Era sempre bellissima, in qualsiasi situazione.
Ricordo quella sera in cui scese di casa dopo aver pianto, continuando a ripetermi quanto fosse terribile.
Più la guardavo, più volevo continuare a guardarla.»

Sembrò quasi annoiato da questo mio incipit, e senza alzare gli occhi dal suo taccuino, riprese con le domande.

«Dove vi siete conosciuti?»

Abbassai lo sguardo sul mio polso, guardando il braccialetto che in tutti quegli anni mi aveva tenuto con i piedi per terra.
La scritta “Stay Strong” cominciava a sbiadirsi ormai, ma poco importava.
Ormai era impressa a fuoco sul cuore.

«Un bar. Un banalissimo bar. Ma è stata la serata più bella della mia vita.»

In quel preciso istante suonò la sveglia, a indicare la fine dell’ora di terapia.
Ancora prima di raggiungere il problema fondamentale.
Poco prima di raggiungere il finale della storia.

Chiuse il taccuino, e togliendosi gli occhiali mi guardò dritto negli occhi.
Feci per alzarmi, convinto che mi avrebbe congedato fino alla prossima seduta.

«Io ho capito tutto di lei.»

Mi disse facendomi bloccare.

«E’ qui perché crede di poter cancellare quel senso d’inadeguatezza che le vive dentro.
E’ convinto che io possa colmare quel vuoto che negli anni si è formato al centro della sua anima.
Io non posso fare niente di tutto ciò.
Vuole la verità?
La verità è che solo lei potrà guarirsi dal male che si è creato nella sua testa.
Sono convinto che il suo racconto finirà con qualche comportamento autodistruttivo che alla fine la costringerà a erigere un muro, credendo di poter cambiare.
Ogni esperienza che lei abbia vissuto fino a ora l’ha resa la persona che è ora.
Il suo unico difetto è di pensare troppo.
Non credo che lei abbia bisogno di una seconda seduta, quello di cui ha veramente bisogno, è di buttare giù quel muro.»

Lo guardai, mentre vedevo affievolirsi quella scintilla di emozioni fino a far tornare il suo volto piatto e gli occhi vuoti.
Doveva essere una qualità professionale.

Uscii dallo studio e cominciai a camminare, sempre a testa bassa, ripensando a quelle ultime parole del Dottore.
Era riuscito a inquadrarmi senza nemmeno avere tutti i pezzi del puzzle.
Forse la mia storia non era così unica come credevo.

Il vento freddo mi costrinse a chiudere gli occhi per un secondo, un secondo soltanto, ma fu sufficiente per scontrarmi con una ragazza che camminava nella direzione opposta.

«Scusami!»

Le nostre voci si accavallarono e mentre lentamente riaprivo gli occhi, mi trovai di fronte la ragazza per cui tutto era cominciato.
Il motivo per cui questa mattina mi trovavo in giro nonostante fosse ancora così presto.

Le sorrisi, un sorriso incondizionato come non accadeva da tempo ormai.
Un sorriso così potente da demolire qualsiasi pensiero negativo, qualsiasi dubbio, qualsiasi muro.

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