«Raramente gli scenari migliori appaiono quando ne abbiamo bisogno, normalmente un cielo stellato è coperto di nubi, un mare limpido e cristallino è smosso dall’alta marea.
Per questo ho iniziato a sfruttare l’immaginazione, troppo secondo alcuni, mentre per altri sono diventato un esempio da imitare.
Ma io non sono nessuno, come voi sono il protagonista di una storia mai scritta.

Questa storia inizia e finisce in un campo di grano.
Paesaggio scontato, direte, ma a quel tempo ero poco più di un ragazzo e sarei stato ore sdraiato in quel campo a contare gli aerei che passavano sopra la mia testa.
Era di mio nonno, il padre di mio padre, e sua era la fattoria con tutti quegli animali. Li adoravo, e adoravo la vita del contadino, forse perché mi faceva sentire libero.
Con una spiga di grano che mi pendeva dalle labbra (proprio come avevo visto in quel vecchio film in bianco e nero) ed un cappello di paglia in testa, solo lì mi sentivo il re del mondo.
Mi ricordo ancora di Igor, lo spaventapasseri che avevo costruito insieme a mio padre qualche anno prima.
Indossava il mio gilet, quello fatto da mia madre ma diventato ormai troppo piccolo, in testa aveva un berretto da baseball e per la faccia avevamo usato una di quelle maschere di lattice con le sembianze di un signore anziano.
Anche se non riusciva a spaventare i corvi (anzi, era diventato un punto di ritrovo per loro), Igor era una parte importante della nostra famiglia, così importante da meritare un funerale dopo che la tempesta l’ha distrutto dalla testa ai piedi.
Almeno il gilet me lo sono ripreso.
In quel campo di grano ho fatto l’amore per la mia prima volta, con la figlia del contadino vicino.
Rossella… era bella, capelli lunghi e castani ed un sorriso che infondeva allegria anche alla persona più triste.
Quella notte la ricordo bene, era come se qualcuno avesse acceso le stelle solo per noi, e con solo il grano e qualche cicala in ascolto, siamo diventati entrambi adulti.
Chissà che fine ha fatto, ricordo che si è trasferita insieme alla famiglia in città, ma poi…
Il tempo è passato così in fretta che ancora fatico a credere di non essermi immaginato tutto.
Mio nonno è venuto a mancare e in eredità avevamo ricevuto un mucchio di debiti, saldabili solo vendendo la fattoria con il campo di grano.
Il terreno non rendeva più come un tempo, ma venderlo è stato un duro colpo, soprattutto per me che, ormai ventenne, non avevo comunque rinunciato al mio rito settimanale.
Il sabato, il mio giorno libero, lo passavo sempre lì, sdraiato a sonnecchiare sotto il sole; a volte invitavo qualche amico per una partita a pallone, ma almeno 10 minuti di relax totale non me li toglieva nessuno.
I miei vendettero tutto per quattro soldi e ci trasferimmo in città, e lì siamo rimasti fino all’”anno nero”.
Lo chiamo così perché per me è stato l’anno delle disgrazie, una dopo l’altra.
Mio padre ebbe un attacco di cuore quando nessuno era in casa, lo ritrovammo solo ore dopo con il telefono all’orecchio, privo di vita.
Pochi mesi dopo anche mia madre spirò, lasciandomi solo alle mie forze.
Quella casa era troppo grande per permettermela, e fu così che mi trasferii in un monolocale fuori città.
La mia vita era ormai distrutta, ero diventato scontroso, menefreghista e pessimista.
Vedevo il peggio dovunque.
A quel tempo avevo trovato lavoro come impiegato alle poste, ma per la mia irascibilità verso i clienti sono stato trasferito in magazzino, a smistar lettere.
Era come se, vendendo quel campo i miei avessero venduto anche la mia giovinezza, la mia voglia di vivere e la mia felicità.
Da quel momento iniziai a fare dentro e fuori dalla prigione centrale.
No, il passaggio non è stato così rapido, anche se effettivamente mi bastò conoscere Vito, un Siciliano che si era trasferito da poco in città, per cambiare ulteriormente la mia vita.
Vito era il proprietario di un locale poco distante da casa, il “Malibu”, e lì venni assunto come barman.
La paga era ottima , per non parlare della compagnia.
Ragazze stile playboy, mezze nude, danzavano al centro del locale e si accalappiavano clienti arrapati.
Oltre ad essere un bar/nightclub, infatti, il Malibu aveva al suo interno un mercato del sesso clandestino paragonabile a quello di Amsterdam.
Nonostante fosse conosciuto da tutti, la polizia locale sembrava distante, quasi impassibile, come se tutto non stesse accadendo per davvero.
Mi è sempre rimasto il dubbio che vito fosse un Don Mafioso, ma non ho mai voluto indagare.
Per colpa di Vito iniziai a spacciare per arrotondare a fine mese.
Lui mi forniva la roba a prezzi bassi, io la tagliavo con il bicarbonato e la rivendevo al triplo, a volte al quadruplo se beccavo il cliente giusto.
In questo modo anche venendo arrestato e privato delle dosi giornaliere, riuscivo comunque a farci un rispettoso guadagno.
A poco a poco anche quella vita iniziò a stancarmi, mi ero fatto tutte le ragazze del Malibu, avevo i miei drogati fissi che nonostante li truffassi si fidavano ciecamente di me, e come barman avevo imparato un sacco di cocktail strani e buonissimi.
Il trucco sta nel rendere tutti ubriachi senza che se ne accorgano, alla seconda parte pensano le ragazze.
Era così che il Malibu continuava a vivere, di certo come Nightclub normale non sarebbe sopravvissuto una sola settimana.
La mia era sicuramente una vita invidiabile agli occhi di tutti, ma a me mancava qualcosa, quella parte di me che avevo perso e che, forse, non avrei potuto mai riavere indietro.
Ora che avevo i soldi per ricomprare il campo, infatti, il nuovo proprietario non era disposto a vendere, nemmeno al doppio del suo valore.
Era ancora lui, l’uomo che ce l’aveva portato via ad un decimo del suo valore.
Aveva fatto dei lavori di ristrutturazione rendendola anche più bella di quanto ricordassi.
Ma a guardarla bene, ormai, del mio passato lì non c’era più nulla. C’era un nuovo spaventapasseri, ma non era Igor, le porte erano state riverniciate, coprendo tutti quei taglietti che mio padre incideva per segnare la mia altezza di anno in anno.

La mia vita è cambiata in peggio dal giorno della vendita, nulla ormai è in grado di salvarmi, o di salvare la mia anima.
Inoltre era da un paio di giorni che facevo sempre lo stesso sogno, io chiuso in un manicomio in una stanza insonorizzata, lontano dal mondo. Iniziarono anche alcune voci nella mia testa che continuavano a sottolineare la mia presunta pazzia.
Vogliono cercare di nascondere la verità ed io, in tutta risposta, annego questi brutti pensieri nell’alcool.
A volte quello che chiedi è semplicemente di stare bene.
Ti guardi intorno e non vedi altro che facce sorridenti, amori perfetti. Persino al cinema di fronte ad un film comico vedi quelle coppiette che si stringono le mani per tutta la durata del film, quasi dallo schermo potesse uscire qualcuno per portarti via la fonte della tua felicità.
Già, a volte quello che chiedi è semplicemente di stare bene.

Presi la macchina e mi diressi per l’ultima volta verso la mia vecchia casa di campagna e con un colpo di pistola uccisi quel distruttore del mio passato.
Era a letto, ignaro di tutto. Si dice che morendo nel sonno non si provi dolore… Peccato.
Salii sul capannone più alto senza farmi vedere e guardai in basso.
La città sembrava insignificante vista da lì e tutte le luci accese mi ricordarono che il mondo va avanti comunque, anche senza di noi. Tutti siamo utili, ma nessuno è indispensabile… La polizia sarebbe arrivata da un momento all’altro, ma ora che avevo la città ai miei piedi e la vita tra le mie mani, sapevo cosa fare, sapevo come mettere fine alla sofferenza e dare vita alla felicità passata… Mentre l’effetto dell’alcool iniziava a svanire e le voci a ritornare, presi la mia decisione.»

L’uomo si girò e con un salto all’indietro si buttò verso il campo, cadendo ai piedi del nuovo spaventapasseri , battendo la testa e morendo sul colpo.

«Questa storia inizia e finisce in un campo di grano. Come il Verga ricercava il suo focolare, così io ritorno al mio. Riunisco la famiglia com’è giusto che sia, dov’è giusto che sia. »

Per qualche minuto solo il silenzio, poi il caos…
In quella cella del manicomio il paziente numero 4012 si era appena ucciso con un coltellino svizzero che, chissà come, era riuscito a portarsi dietro.
Accanto al corpo senza vita c’era una lettera con una sola frase:

«Tutti hanno bisogno di ritrovare il proprio campo di grano.»

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